Il Premio Mimosa: Vincitore anche Giacomo Giombolini con questo tema
I piedi di
Giovanni
Giovanni osservava
i suoi piedi. Erano la parte che meno aveva utilizzato
del suo corpo. Il lavoro di Giovanni non pretendeva, infatti, il loro utilizzo.
Giovanni non doveva né correre né camminare, il suo compito era di rimanere per
un determinato tempo tra quattro pareti. Il suo spazio era stretto, anzi,
strettissimo. In alto a destra una foto della famiglia, più in basso una
vecchia radio illuminata dalla fioca luce di una lampada. Poi una calcolatrice,
un porta penne, una scatola di cioccolatini e quattro pezzi di carta sparsi per
terra. Conosceva poca gente, usciva poco, ma di facce ne aveva viste assai. I
volti più strani erano quelli dei camionisti: facce grosse e sporche, barbe
incolte intrise di sudore, occhi stanchi e dimessi.
Poi c’erano i
pendolari. Come emigranti pronti all’esodo, si ammassavano macchine su macchine,
cercando di varcare l’ambita sbarra. Giovanni li vedeva venire verso di lui ad
uno ad uno. Man mano che le ore della domenica passavano, quei pendolari erano
sempre più irritanti. Si rivolgevano a lui bruscamente, tanti neanche
salutavano, pochissimi si degnavano persino di ringraziare. E poi ripartivano,
verso mete sconosciute. I cavalli infuriati lasciavano dietro di sé di fumo
nero. Ma che importava a Giovanni del fumo nero, o di quello blu o rosso, che
importava a Giovanni se proprio quel fumo nero gli avrebbe portato via la vita.
Giovanni aveva
iniziato a svolgere questo lavoro sin da giovane. Gliel’aveva consigliato un
amico nel 69, si chiamava Ermanno. Diceva di aver trovato il lavoro fatto a
pennello per gli sfaticati come lui, e che, prima o poi, tutte queste
autostrade si sarebbero riempite di macchine. E allora sì, va bene, proviamoci.
Giovanni non aveva ancora una famiglia, era un ragazzo di ventiquattro anni
pronto a fare esperienze. Insomma, non aveva niente da perdere. Disse qualche
cosa al capo, poi fu subito assunto. Assieme a lui si trovavano due ragazzi,
più o meno della sua stessa età. Entrambi possedevano una macchina, tanti
amici, e soprattutto una famiglia. Tutte cose che Giovanni ancora non aveva. In
quei tempi, non aver preso moglie a ventiquattro anni suonati, significava
rassegnarsi all’essere zitelli. Col passare del tempo Giovanni trascurò sempre
più se stesso e la sua vita sociale. Il lavoro si impossessò di lui, non usciva
più, non aveva più amici, e quella cabina sull’ A1 era diventata quasi come
casa sua. Gli anni passavano, e Giovanni riuscì finalmente a trovare moglie. Si
chiamava Marina. Non era molto bella, ma era simpatica, badava al marito e alla
casa. Giovanni da lei ebbe due figli: Marco e Enrico. Alla nascita sia dell’uno
che dell’altro, Giovanni aveva deciso di staccare per un po’ con il lavoro e di
dedicarsi più ai suoi figli. Tornato alla sua occupazione, Giovanni era stato
sconvolto da una tragica notizia. Andrea, uno dei suoi due colleghi, era morto
inaspettatamente a soli trentasette anni.
“ Erano i polmoni”
dicevano in giro. Il povero Andrea Giuntis, nato nel 1946 a Firenze, morì nell’ottantatré
per un tumore ai polmoni. Non era colpa del fumo, né del cibo. A ucciderlo fu
il lavoro stesso che lo faceva campare.
Per più di dieci
anni la cabina di Andrea rimase vuota. Nessuno del personale osava entrare al
suo interno. Alcuni dicevano che portasse iella, altri che fosse piena zeppa di
topi. Un giorno arrivò un furgoncino presso la stazione. Giovanni era già
pronto a tirare fuori il biglietto, poiché il suo collega era in pausa, ma poi
notò che la vettura si dirigeva verso la corsia “ fantasma”. Stette per andare
dal conducente quando vide un uomo uscire dall’automobile assieme ad uno strano
marchingegno. Giovanni rimase ad osservare. Per più di un ora l’uomo fu intento
a fissare al terreno uno strano oggetto, all’apparenza tecnologico. Il
furgoncino se ne andò lasciando l’ apparecchio fissato all’ asfalto vicino alla
cabina del defunto Andrea. Giovanni scese, fece una lenta corsa per arrivare
nel luogo in cui era sistemato quell’arnese.
“che cosa sarà mai questa diavoleria” si chiedeva. L’uomo, titubante, iniziò a
palpare con prudenza il bordo dell’oggetto. Quest’ultimo non rispose in alcun
modo. Giovanni diresse le sue mani verso l’interno. Lì si trovavano due grossi
pulsanti colorati e due fessure apposite per l’ inserimento del denaro. Viste
queste, provò a centrarne una con una moneta. Inaspettatamente la macchina
iniziò a emettere strani rumori e macchinose vibrazioni. Dopo qualche altro
frastuono, ecco uscire fuori il biglietto da una delle due fessure. Giovanni
rimase sconvolto. “Come? Con tutti gli anni passati chiuso qui, tra queste
quattro pareti, tutto il fumo che ho respirato, tutti i volti che ho visto con
i miei occhi, mi volete sostituire con questa diavoleria?”
“ Ma no signore, è
solo una soluzione temporanea, ci serve più personale, e la cabina del povero
Andrea andava in qualche modo riempita!”
Soluzione
temporanea un corno. Nel corso del tempo, le macchinette aumentarono, e le
corsie raddoppiarono. Ora tutte quelle facce Giovanni non le vedeva più come
prima. Ora le code delle macchine si raggruppavano tutte sulle corsie degli
automi. Da tutto questo, Giovanni capì che all’uomo non importa più di
stabilire rapporti. L’uomo preferisce una macchina divoratrice di soldi a un
essere come lui. L’uomo non capisce che, a volte, anche un saluto o una stretta
di mano, può sollevare il morale di una persona. Ma ormai a Giovanni non
importava più niente. Pochi anni e sarebbe andato in pensione. La sua salute
peggiorava. Tossiva perennemente. Il suo corpo si era chinato su se stesso. Le
sue mani erano rugose e vecchie, le unghie giallastre e rovinate. I capelli non
imbiancavano, rimanevano neri come il fumo che gli stava portando via la vita.
E lui se ne accorgeva. Si accorgeva che stava tutto per finire. Che non erano
le sigarette o il cibo avariato ad aver ucciso il povero Andrea, ma le macchine
che gli davano il lavoro.
Giovanni si
guardava i piedi. Erano l’ unica parte del suo corpo che riusciva a vedere con
nitidezza. Si trovava sdraiato su quel lettino da più di dieci giorni. Alle fredde
e tetre stanze d’ ospedale, preferiva la sua cabina. Calda, accogliente. Sua.
Una notte si
svegliò. Forse un brutto sogno. Era stanco, stanco di tutto. Vide un bicchiere
d’ acqua alla sua destra. Lo afferrò con tutta la poca forza che gli rimaneva. Bevette.
Ecco, ora non doveva più fare niente. Era quasi arrivato. La sbarra si stava
alzando, poteva passare. Pian piano, si avvicinava sempre più alla macchina.
Inserì la moneta. Esitò un attimo. Vide la macchina muoversi facendo strani
rumori. Ed uscì il biglietto per il suo ultimo viaggio.