Premio Mimosa: il racconto di Domenico Luongo
Il suo corpo,
colmo di plumbei lividi e di marcati sfregi, giaceva supino e raggomitolato
sotto la scrivania che per lungo tempo fu la sua musa ispiratrice. Respirava
affannosamente e tra un singhiozzo e l’altro sorrideva poiché era certa che
dopo cinquantatré anni di lotte estenuanti aveva vinto lei, anche se in
quell’attimo non sembrava affatto. Eppure con gli occhi ingenui di una bambina,
di donne in queste condizioni ne aveva viste tante, troppe. Ma queste alla
prima percossa si arrendevano sapendo che la malavita era più forte di loro.
Piangeva per l’acuto dolore, ma tra le labbra umide spuntava un gracile
sorriso.
Ben rammentava
quell’ambigua sensazione: l’aveva già provata quando con la famiglia lasciò
Scampia, losco sobborgo napoletano, per trasferirsi al nord. Le motivazioni
“ufficiali” enunciate dal padre riguardavano il lavoro, ma lei a dodici anni
ben sapeva ciò che accadeva in casa, e negli occhi di colui che aveva
contribuito a metterla al mondo scrutava nitidamente quel luccichio tipico di
chi è pervaso da un grande rimorso o da un forte senso di colpa. Vedeva sfocato
e nella confusione totale erano riemerse tra i suoi pensieri le cruente
immagini di qualche minuto prima. Manganellate, calci, manganellate e ancora
manganellate. Era rimasta scioccata dall’impeto, dal furore e dalla violenza
con le quali le erano state sferrate.
il tutto solo perché aveva deciso di dare una
svolta alla sua esistenza e a quella di altre persone svolgendo semplicemente
quello che teoricamente sarebbe dovuto essere il suo mestiere. Mentre alla
lingua le giungevano salate lacrime, la sua mente rievocava il deludente attimo
in cui il suo direttore con lo sguardo basso per la vergogna apriva la porta
dell’ufficio della sua impiegata facendo irrompere ferocemente quelle due belve
tarchiate armate di randello.
Sì, era proprio
lui, non c’era dubbio. Era lo stesso direttore che aveva esaltato il suo
preziosissimo talento di giornalista e che le aveva sempre concesso di scrivere
articoli di carattere opinionista nei settimanali. Ma la cosa che più la faceva
andare su tutte le furie era che lei adesso per lui non provava nemmeno odio,
solo una profonda amarezza. Voleva che non pubblicasse quell’articolo che
descriveva le varie associazioni malavitose? In questo caso avrebbe soltanto
perso tempo e denaro perché lei l’avrebbe scritto, se necessario, perfino sul
lettino dell’ospedale.
Quell’eccesso di
determinazione, dalla quale era pervasa da capo a piedi, riesumava tra i suoi
ricordi la sua figura da studente, insaziabile di cultura, seria, costante,
arguta e contemporaneamente afflitta da quella incurabile smania di essere
sempre la prima. Dopo la laurea e tonnellate di specializzazioni aveva iniziato
la sua carriera lavorativa, che l’aveva condotta ad essere quello che era ,
oltre le sue più rosee aspettative. Era la prima volta che qualcosa, seppur
solo materialmente, le impediva di trascorrere la sua vita secondo i suoi
canoni.
Adesso che ci
pensava, i suoi colleghi, compresi quelli con cui aveva stretto legami di
amicizia, avevano ultimamente assunto nei suoi confronti un comportamento
ostile e poco garbato. Si domandava se anche loro ne erano a conoscenza e solo
questa ipotesi la fece sentire tremendamente tradita. Ma poi si insultò da sola
dicendosi che era una pazza a credere che i suoi “compagni di avventura” che
fino a ieri le offrivano il caffè ai distributori, non l’avessero voluta informare
che l’attendeva una congiura bella e buona.
Estenuata, con
tutte le forze che aveva in corpo si ancorò alla scrivania e ricorrendo a tutti
gli arti si alzò a stento. In seguito si sedette sulla sua sedia girevole e
dopo aver posato lo sguardo sulla scarlatta pozza di sangue posta ai suoi piedi
impugnò decisa la cornetta e senza timori telefonò a chi di dovere. Li aveva
visti in volto! Li aveva visti in volto! Ormai era libera dalla gabbia nella
quale incoscientemente era rinchiusa e di lì a poco, in una gabbia ci sarebbero
finiti loro!